Verde rame in agricoltura: pro e contro
Il verde rame in agricoltura è da sempre impiegato come fungicida, è oggi oggetto di dibattito per la sua valenza inquinante.
Allora ci si chiede come proteggere la nostra salute e quella del nostro ambiente? Rispondiamo partendo dalla sua storia, come è nato e come si è trasformato, analizzando le problematiche legate al suo impiego ed allo stato d’emergenza in agricoltura, giungendo ad una scomoda verità.
Così è nato il verde rame…
Nasce con i “parolotti”, ossia gli artigiani che lavoravano i paioli (da paròl, paiolo). I paioli, sono pentole di rame a fondo concavo, non stagnato, usate tradizionalmente per la preparazione della polenta e per la produzione di formaggi e latticini. I parolotti comperavano i paioli grezzi dai maestri ramai, che li costruivano partendo da semplici fogli di rame e con l’uso di particolari legni (cavicci) e creta. Dopo averli riscaldati sulla forgia, appena il metallo era diventato rosso, li gettavano in una vasca (era una botte tagliata a metà, chiamata brènz) contenente acqua con acido solforico al 5%, per far staccare le scorie del rame. Infine li pulivano con la sabbia: erano pronti per la lavorazione a martello (la cosiddetta sculettatura); anello, bordo, manico ed erano ultimati…
Da rame metallo a fungicida rameico
Fu per puro caso che, un fascio di “strope” (ramoscelli di salice utilizzati per la legatura delle viti), posto lì vicino a quella vasca dove gettavano i paioli bollenti, vi cadde dentro e … quando i parolotti se ne accorsero, siccome si era formata una specie di poltiglia derivante dalle scorie di rame sciolte, videro che attorno ai ramoscelli di salice si erano formati dei veri e propri cristalli di rame.
Legando poi con quelle strope i tralci delle loro vigne, come sempre facevano, si accorsero che non si ammalavano più di peronospora. Il fatto fece clamore ed il caso divenne una pratica: si immergevano i ramoscelli di salice viminario nella poltiglia di rame, che l’assorbivano e la ributtavano fuori cristallizzata; poi si sbattevano per staccarla e si otteneva il verde rame che veniva diluito nell’acqua e distribuito alle viti.
Così è nato il verde rame, evoluto poi in poltiglia bordolese (acetato basico di rame misto a calce) e successivamente ancora in solfato di rame (CuSO4) preparato industrialmente con processi galvanici (preparazioni elettrolitiche del sodio e del potassio dagli anodi di rame), in varie forme (ossicloruro di rame, idrossido di rame, ossido di rame, etc.) e purtroppo addizionato con altre sostanze pericolose (pesticidi) che agiscono in maniera occulta.
Ma qui siamo ormai nell’era della chimica … con tutte le conseguenze del caso.
- Conseguenze dalla produzione: emissioni atmosferiche di vapori tossici, formazione di fanghi ed eluati pericolosi, contaminazioni dei siti industriali, contaminazioni in ambito idrico e geologico, etc
- Conseguenze dall’impiego: persistenza, bioaccumulabilità e tossicità per il regno vegetale, quello animale e per la salute umana
Il solfato di rame impiegato in agricoltura, soprattutto in viticoltura, è un fungicida di copertura ad azione anticrittogamica preventiva (ad esempio, impedisce la germinazione delle spore della peronospora).
Verde rame in agricoltura: 5 punti fondamentali
E qui veniamo al punto del suo difetto:
- Verderame tossicità
Il rame è un metallo pesante il cui rilascio sul terreno è altamente tossico. Secondo recenti studi “l’uso continuativo dal 1800 a oggi dei composti di rame, come i fitofarmaci, avrebbe portato a concentrazioni tossiche del metallo nei terreni agricoli, con livelli che variano tra 100 fino a 1.280 milligrammi per chilo di suolo, contro valori di 5-20 mg per kg di suolo in quelle aree non usate per attività agricole.“ - Rame dopo ogni pioggia?
Basta una pioggia per annullare la sua azione e dunque in un periodo piovoso o con abbondanti rugiade occorre ripristinare la copertura con un nuovo trattamento. Questo porta l’agricoltore ad effettuare trattamenti quasi giornalieri, almeno nei periodi in cui i vitigni sono più suscettibili alle malattie; considerando i cambiamenti climatici questi periodi sono sempre meno distinti. In viticoltura biologica si dichiara di effettuare mediamente 15 trattamenti, figuriamoci in quella convenzionale. Si sa che alcuni agricoltori acquistano il rame in nero e non inseriscono i trattamenti nel quaderno di campagna, altri invece rischiano. Ci si domanda come è possibile parlare di vino biologico. I tecnici stessi si augurano “che nessuno fiati” perché, dicono, “basterebbero delle semplici analisi del terreno (non richieste dalla certificazione bio) per causare una perdita economica immane… altro che spumanti biologici. - Dosi ridotte di rame
Biologico a rischio: ridurre il numero dei trattamenti o le dosi complessive ad ettaro?
Leggiamo le dosi riportate in etichetta: ad esempio per l’ossicloruro di rame 350g ogni 100 litri d’acqua/3 kg ad ettaro per trattamento, il che fa ben comprendere quanto rame venga impiegato complessivamente.
Inoltre, si teme che il prodotto non funzioni se usato a dose diversa da quella indicata in etichetta. Che fare allora? Sebbene i produttori abbiano adeguato le etichette, il risultato non cambia. - Il tetto fissato dall’Unione Europea sull’uso del rame in agricoltura biologica
Nuove restrizioni Ue sul rame in agricoltura in atto dal 1° febbraio 2019.
Ebbene finalmente la legge si è espressa: 28 kg di rame per ettaro nell’arco di 7 anni (mediamente 4 kg/ha anno) il limite massimo di rame ammesso per le coltivazioni biologiche. E la viticoltura convenzionale? No limits? Perché non si vuole considerare la problematica dal giusto punto di osservazione, quello dell’intero agroecosistema? Tutto questo rame da qualche parte va a finire, nessuno tiene conto di quello che rimane a carico del terreno e dell’uva!!! - Rame in agricoltura: fatta la legge trovato l’inganno.
Sebbene le quantità di rame impiegato dipendano dalla forma di allevamento, dalla densità d’impianto e dal vigore delle viti (ossia dal deposito per metro quadro di foglie), sebbene in funzione di tutto ciò si giustifichino dosi di rame ad ettaro decisamente inferiori a quelle indicate in etichetta, queste rimangono sempre un tentativo di arrampicarsi sui vetri. Il povero agricoltore è costretto a districarsi fra la pratica e la grammatica.
Per salvare il nostro agroecosistema
Da 18 anni esiste una soluzione concreta, ma combattuta e tenuta nascosta: consente minori interventi fitosanitari e l’abbattimento dei residui chimici ed inquinanti dal terreno e dai prodotti agricoli. Parliamo delle formulazioni disinquinanti BioAksxter® il cui utilizzo, come ampiamente dimostrato da molte aziende agricole, consente di fare un’agricoltura effettivamente sostenibile e di altissima qualità a prescindere dal metodo di coltivazione adottato. L’unico modo per ovviare allo scenario di assoluta incertezza che ha preso posto fra gli addetti ai lavori, per mettere in pace tutti ed in primo luogo per salvare il nostro agroecosistema.
Vigneto biologico coltivato con BioAksxter®: soltanto 1,7 kg di rame per ettaro/anno
Agricoltura biologica o convenzionale che sia, considerato lo stato d’emergenza in cui versa l’agricoltura, è vergognoso che si ricorra continuamente ai fondi e si spendano soldi per trovare soluzioni alternative, come nel caso dei numerosi progetti finanziati dal Ministero delle Politiche agricole nell’ambito del Piano nazionale per la ricerca e l’innovazione in agricoltura biologica e biodinamica, nonché dall’Unione Europea. Vergognoso soprattutto che, proprio in Trentino dove si produce BioAksxter®, ora si dichiari “In questi anni abbiamo testato ben 300 molecole senza risultati, ora abbiamo individuato due sostanze naturali che sono in fase di registrazione e che potrebbero essere disponibili fra 4-5 anni … Per questo è necessario tenerci molto caro il nostro rame ancora per alcuni anni come minimo.”